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NEWSLETTER APRILE 2022

        

APPROFONDIMENTO MENSILE: NOVITA’ GIURISPRUDENZIALI E DOTTRINARIE PER ORIENTARSI NEL MONDO DEL DIRITTO D’IMPRESA

 

 

RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE:

 

DIRITTO PENALE 

REATI TRIBUTARI

 

CASISTICA:

OMESSA DICHIARAZIONE

Cass. pen., sez. III, 14.02.2022, n. 5141.

Nel caso de quo, un contribuente aveva presentato ricorso per Cassazione avverso la sentenza con la quale la Corte di Appello di Napoli, confermando la pronuncia di primo grado, lo aveva condannato per il reato di omessa presentazione della dichiarazione annuale relativa alle imposte dirette ed IVA ex art. 5 D.Lgs. n. 74/2000. La Suprema Corte, dopo aver analizzato la menzionata fattispecie, è arrivata a stabilire che colui il quale presenta una dichiarazione “in bianco”, ovverosia incompleta in quanto priva di un quadro del modello (nel caso di specie si trattava del quadro RG/RF), non può essere condannato per il reato di omessa dichiarazione, bensì per il minor reato di dichiarazione infedele. Per la Cassazione, infatti, il reato ex art. 5 D.Lgs. n. 74/2000 è integrato allorquando, nei termini previsti dalle leggi tributarie nonché nel rispetto delle soglie individuate dalla stessa disposizione, il contribuente non trasmetta agli uffici competenti le predette dichiarazioni o le stesse siano del tutto inesistenti.

 

OMESSO VERSAMENTO IVA

Cass. pen., sez. III, 28.01.2022, n. 3281.

In tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo di cui all’art. 10-ter D.Lgs. n. 74/2000, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storni dai ricavi dei corrispettivi non riscossi; non è tutto: come già ribadito precedentemente dalla Suprema Corte in tema di omesso versamento dell’IVA, l’emissione della fattura, qualora antecedente al pagamento del corrispettivo delle prestazioni effettuate, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la suddetta imposta, poiché l’obbligo di indicazione nella dichiarazione e di versamento della relativa imposta non deriva dalla effettiva riscossione di tale corrispettivo.

 

DICHIARAZIONE FRAUDOLENTA

Cass. pen., sez. III, 31.01.2022, n. 3325.

Il rappresentante fiscale, il quale agisce in qualità di mandatario di un soggetto non residente (nel caso di specie, si trattava di una S.r.l. estera) è responsabile, unitamente a quest’ultimo, per eventuali irregolarità commesse nei confronti dell’Erario; la Suprema Corte non manca di precisare come tale responsabilità (di natura solidale) del rappresentante fiscale non possa essere automaticamente traslata nel campo penale, il quale esclude il ricorso a forme di responsabilità indirette o oggettive. Nel caso de quo, tuttavia, posta l’esclusione di una responsabilità oggettiva nei confronti del rappresentante, la Cassazione ha stabilito che il rappresentante fiscale di una società estera risponde del reato di dichiarazione fraudolenta quale diretto destinatario degli obblighi di legge in materia IVA, atteso che la carica ricoperta attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale a titolo di dolo eventuale.

 

FRODE FISCALE

Cass. pen., sez. I, 1.02.2022, n. 3591.

Nel caso affrontato dalla Cassazione, il Tribunale del riesame di Reggio Calabria aveva confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti di un soggetto indagato per associazione a delinquere dedita a frodare le imposte IVA ed accise nel settore dei prodotti petroliferi, nonché a riciclare i proventi derivanti da tali attività delittuose. L’indagato impugnava l’ordinanza contestando, tra gli altri, l’inosservanza di una norma processuale con riferimento all’estrazione, mediante captatore informatico, di un file Excel dal computer dell’indagato e ritenendo tale attività assimilabile ad una perquisizione, mentre la successiva acquisizione veniva ritenuta a tutti gli effetti un sequestro. Ebbene, sul punto, la Cassazione ha affermato l’utilizzabilità, nell’ambito delle indagini per il reato di frode fiscale, del suddetto file “fotografato” sul personal computer in uso all’indagato del malware ivi inoculato: tale attività investigativa, infatti, non riguardava l’estrapolazione dal supporto digitale di documenti informatici preesistenti all’attività intercettiva, bensì esclusivamente la captazione di flussi di dati in fieri, cristallizzati nel momento stesso della loro formazione. Una tale attività di mera “contestazione” dei dati informatici in corso di realizzazione, pur non costituendo una “comunicazione” in senso stretto, costituisce certamente, invece, un comportamento c.d. comunicativo, del quale è ammessa la captazione – previo provvedimento autorizzativo dell’Autorità giudiziaria – nonché la videoregistrazione, dunque anche la fotografia, nel caso di specie mediante screenshot della schermata. Pertanto, non può dirsi sussistente, in tal caso, alcuna perquisizione, essendo mancata qualsiasi ricerca e successiva estrapolazione di materiale preesistente dal supporto informatico, e neppure rileva che in tale prospetto in fieri figurino dati preesistenti alla sua formazione, ciò risultando necessitato dalla natura del medesimo, riportante poste di contabilità, ex se riepilogative di operazioni economiche già effettuate ovvero in corso di realizzazione, delle quali si aggiorna annotazione e memoria. Come affermato, del resto, da precedenti arresti giurisprudenziali della Suprema Corte, sono legittime le intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche ex art. 266-bis c.p.p. effettuate mediante installazione di un captatore informatico (cd. “Trojan horse”) all’interno di un computer collocato in un luogo di privata dimora.

 

INDEBITA COMPENSAZIONE

Cass. pen., sez. III, 3.02.2022, n. 3771.

Confermando l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, la Suprema Corte ha stabilito che la soglia di rilevanza penale per il reato di indebita compensazione ex art. 10-quater D.Lgs. n. 74/2000, pari a 50mila Euro annui, va riferita all’ammontare dei crediti non spettanti utilizzati per le compensazioni indebite, e non alle imposte sui redditi o all’IVA non versate, con la conseguenza che, per accertare il superamento della soglia, occorre procedere alla somma algebrica degli importi dei crediti inesistenti o non spettanti portati in compensazione.

 

OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE

Cass. pen., sez. III, 7.02.2022, n. 3772.

Con la citata sentenza, la Cassazione analizza l’art. 10-bis D.Lgs. n. 74/2000, che punisce chiunque non versa, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a 150mila Euro per ciascun periodo d'imposta. Riprendendo quanto affermato dalle Sezioni Unite, la sostituzione è uno strumento impositivo con il quale l'Amministrazione finanziaria, in luogo della riscossione dell'imposta direttamente dal percettore del reddito, incassa il tributo da un altro soggetto, che eroga gli emolumenti, che prende il nome di “sostituto” d'imposta in quanto tenuto al pagamento in luogo dell'altro, il c.d. “sostituito”, sotto forma di prelievo di una percentuale (c.d. “ritenuta alla fonte”) della somma oggetto di erogazione (costituente reddito) e del suo successivo versamento all'Erario (in genere con cadenza mensile). Tale meccanismo comporta che il sostituto debba adempiere ad una serie di obblighi, tra cui quello di provvedere al versamento, in favore dell’Erario, degli importi delle ritenute operate alla fonte. Quando risulti, come nel caso affrontato dalla Terza sezione, che il soggetto aveva la disponibilità materiale delle somme su cui applicare le ritenute, ma queste non siano state versate bensì impiegate per altri scopi imprenditoriali, oltre ad essere provato il dolo, l’autore del reato si pone volontariamente nelle condizioni di non uniformarsi alla legge, con la conseguenza che non può essere invocata la forza maggiore. Nel caso di omesso versamento di ritenute, infatti, non si pone l’alternativa tra pagare gli stipendi o versare i tributi, perché l’imprenditore, quando paga gli stipendi, effettua le ritenute che dovrà poi versare e fa ciò ogni volta che versa le retribuzioni.

 

AGGRAVANTE EX ART. 13-BIS

Cass. pen., sez. V, 10.02.2022, n. 4957.

In tema di reati tributari, l’aggravante ex art. 13-bis co. 3 D.Lgs. n. 74/2000, in presenza del necessario coefficiente di colpevolezza, si estende ai concorrenti diversi dal professionista o dall’intermediario finanziario o bancario, trattandosi di circostanza a matrice mista, oggettiva e soggettiva, che riguarda una condotta commessa attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale, causalmente ricollegata al fatto tipico, e che, comunque, agevola la commissione del reato; alla luce di siffatto principio, la menzionata aggravante si applica anche nei confronti della collaboratrice dello studio di commercialisti che ha concorso nell’attuazione di meccanismi “apri e chiudi” ideati e attuati dallo studio presso cui lavorava nell’interesse di plurimi imprenditori. 

 

RAPPORTI TRA PROCEDIMENTO PENALE E TRIBUTARIO

Cass. civ., sez. V, 23.02.2022, n. 5946.

Con la sentenza in oggetto, la Cassazione ha colto l’occasione per ribadire un importante principio di diritto: in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546/1992, art. 7 co. 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l‘esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie, ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio.

 

DICHIARAZIONE FRAUDOLENTA MEDIANTE USO DI FATTURE O ALTRI DOCUMENTI PER OPERAZIONI INESISTENTI

Cass. pen., sez. III, 22.03.2022, n. 9753.

Riprendendo un principio di diritto già precedentemente affermato dalla medesima sezione, la Cassazione ha precisato che, in tema di reati tributari, non risponde del reato di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, neppure a titolo di tentativo, l’amministratore di una società il quale, dopo aver acquisito e registrato una fattura per operazioni inesistenti, sia cessato dalla carica prima della presentazione della dichiarazione fiscale per la cui redazione la medesima fattura venga poi utilizzata dal suo successore. I delitti di dichiarazione fraudolenta ex artt. 2 e 3 D.Lgs. n. 74/2000, prosegue la Suprema Corte, si consumano nel momento stesso della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi contabili fittizi; sono, invece, penalmente irrilevanti tutti i comportamenti prodromici tenuti dall’agente, comprese le condotte di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o documenti contabili falsi o artificiosi ovvero di false rappresentazioni con l’uso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento.

 

Cass. pen., sez. III, 22.03.2022, n. 9747.

In riferimento al reato ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, è configurabile il concorso nel reato di colui che – pur essendo estraneo e non rivestendo cariche nella società a cui si riferisce la dichiarazione fraudolenta – abbia partecipato a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito all’amministratore della società, sottoscrittore della dichiarazione fraudolenta, di avvalersi della documentazione fiscale fittizia, né può dirsi impedita, quanto ai reati di emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, la configurabilità di un concorso dell’extraneus nel reato proprio.

 

REATI SOCIETARI

CASISTICA:

 

BANCAROTTA FRAUDOLENTA

Trib. Taranto, sez. II pen., 9.08.2021, n. 978.

Nel caso de quo, il Tribunale condannava il liquidatore di una S.r.l. in liquidazione che aveva occultato beni strumentali e crediti per un valore superiore ad Euro 500mila, ribadendo che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione o occultamento, in quanto reato di pericolo a dolo generico, non richiede che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, risultando sufficiente che la condotta sia compiuta con la consapevolezza della sottrazione o della distrazione.

 

Cass. pen., sez. V, 24.01.2022, n. 2653.

Con la sentenza in oggetto, la Suprema Corte ribadisce un principio di diritto a suo tempo consolidato a livello giurisprudenziale: integrano il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione di un bene oggetto di un contratto di leasing le condotte di sottrazione o di dissipazione del bene stesso, in quanto comportano un pregiudizio per la massa fallimentare che viene privata del valore del medesimo bene e, allo stesso tempo, è gravata da un ulteriore onere economico scaturente dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione alla società locatrice. Infatti, a fronte della disponibilità di fatto – la sola configurabile in capo all’utilizzatore – dovuta alla consegna del bene oggetto del contratto di leasing, la relativa appropriazione da parte sua integra distrazione, in quanto la sottrazione (o la dissipazione) del bene comporta un pregiudizio per la massa fallimentare che viene privata del valore che avrebbe potuto essere conseguito – mediante riscatto al termine del rapporto negoziale – o, al tempo stesso, gravata di ulteriore onere economico scaturente dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione.

 

 

DIRITTO SOCIETARIO

FALLIMENTO

Cass., SS.UU., 14.02.2022, n. 4696.

Nella disciplina della Legge fallimentare risultante dalle modificazioni apportate dal D.Lgs. n. 5/2006 e dal D.Lgs. 169/2007, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del PM o sua propria, anche prima e indipendentemente dalla risoluzione del concordato ex art. 186 L. fallimentare.

 

Cass. civ., sez. I, ord., 25.01.2022, n. 2217.

La Suprema Corte, in continuità con un consolidato orientamento giurisprudenziale sul punto, ha colto l’occasione per ribadire che, in caso di fallimento del debitore ceduto, il cessionario è tenuto a dare la prova del credito e della sua anteriorità al fallimento, qualora venga in discussione la sua opponibilità, ma non anche la prova della anteriorità della cessione al fallimento.

 

Cass. civ., sez. IV, ord., 11.02.2022, n. 4554.

Mentre il termine fissato per la notificazione dell’istanza di fallimento e del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione, ai sensi dell’art. 15, co. 3 L. fallimentare, ha carattere ordinatorio, non avendo il giudizio natura impugnatoria né bifasica, cioè produttrice di effetti prodromici e preliminari suscettibili di stabilizzarsi in difetto di impugnazione, con la conseguenza che, nell’ipotesi di omessa o inesistente notifica e in difetto di spontanea costituzione del fallendo, può essere assegnato al ricorrente un termine per la rinnovazione, quest’ultimo termine (la cui fissazione è riconducibile all’art. 291 c.p.c., ritenuto applicabile, in assenza di una disciplina specifica, anche ai procedimento contenziosi che si svolgono con rito camerale, come quello prefallimentare) ha carattere perentorio, sicché la sua inosservanza determina l’improcedibilità del ricorso, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, l’eventuale costituzione del resistente, dal momento che il principio di cui all’art. 156 c.p.c., che esclude la rilevabilità della nullità dell'atto per avvenuto raggiungimento dello scopo, si riferisce esclusivamente alle ipotesi di inosservanza di forme in senso stretto e non di termini perentori.  

 

SOCIETÀ DI CAPITALI

Cass. civ., sez. I, ord., 5.01.2022, n. 197.

La Corte di Appello di Ancona rigettava la domanda di annullamento di una delibera assembleare di una S.r.l. con la quale erano stati contestualmente approvati i bilanci di due esercizi consecutivi. Chiamata a pronunciarsi in merito, la Suprema Corte, riprendendo un consolidato orientamento in materia di interpretazione del contenuto e dell’ampiezza della domanda giudiziale, ha stabilito che, nell’ipotesi in cui vengano approvati contestualmente i bilanci di due anni consecutivi, la illegittimità del primo bilancio si riverbera su quello relativo all’anno successivo, con conseguente nullità della relativa deliberazione di approvazione.

 

Cass. civ., sez. I, ord., 5.01.2022, n. 198.

La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Tivoli, rigettava la domanda di risarcimento del danno proposta dalla curatela del fallimento di una S.r.l. in liquidazione nei confronti di due soci, uno dei quali amministratore della stessa. La Cassazione, richiamando i propri precedenti, ha osservato che la parte che agisce in giudizio (la curatela) ha l'onere di allegare e provare l'esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuta, invece, a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d'impresa e non abbiano una finalità liquidatoria. Spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d'impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari.

 

 

RASSEGNA DOTTRINALE:

 

DIRITTO PENALE TRIBUTARIO

In caso di confisca di beni donati ai figli occorre un’attenta valutazione del giudice sulla disponibilità effettiva del bene” con commento di Ciro Santoriello – da “Il Fisco” n. 10/2022, pag. 985 ss.

Sentenza di riferimento: Cass. pen., sez. III, 9.02.2022, n. 4456.

La sanzione della confisca ex art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000 ha ad oggetto non soltanto i beni di cui il contribuente infedele è formalmente titolare, bensì anche quelli di cui lo stesso abbia la disponibilità, e ciò al fine di impedire all’autore dell’illecito tributario di sottrarsi alla sanzione intestandoli ad un diverso soggetto. Nondimeno, si pone il problema di tutelare quei terzi che, seppur estranei al reato, risultino titolari dei beni oggetto di confisca. La Suprema Corte si è espressa con una recente sentenza che si propone di mettere un punto fermo sulla questione: spetta al giudice valutare, previa ponderazione delle circostanze del caso concreto, la disponibilità effettiva dei beni in capo all’autore dell’illecito, anche nell’ipotesi in cui la titolarità degli stessi spetti a soggetti terzi; nell’effettuare tale valutazione, il giudice dovrà ricorrere a taluni indici, quali: a) l’esistenza di rapporti di parentela tra il contribuente infedele e il terzo acquirente; b) la collocazione temporale del negozio di cessione; c) le modalità di pagamento del bene; d) l’irrisorietà del prezzo di cessione; e) la provenienza del denaro utilizzato per effettuare il pagamento.

 

Il rapporto tra autoriciclaggio e reati tributari” di Saverio Capolupo – da “Il Fisco” n. 11/2022, pag. 1051 ss.

L’Autore analizza il rapporto tra autoriciclaggio e reati tributari, inseriti tra i reati presupposto del primo, che tanto fa discutere dottrina e giurisprudenza e pone problemi sul corretto tracciamento dell’area della responsabilità penale. Il reato di autoriciclaggio, introdotto con la L. n. 186/2014, si pone l’ambizioso obiettivo di sterilizzare il profitto conseguito dall’agente con il reato presupposto e impedirne così il reinvestimento nel circuito economico.  Il rapporto è reso ancora più complicato dal fatto che talune fattispecie di reati tributari sono inevitabilmente legate al superamento di una determinata soglia, mentre altre prescindono da qualunque elemento quantitativo, rendendo così inadeguata la formulazione dell’art. 648-ter.1 c.p. Con riferimento al profitto, la formulazione della disposizione pone un ulteriore problema interpretativo: il profitto del delitto di autoriciclaggio, infatti, non può coincidere con quello del reato tributario presupposto, di cui l’agente ha già goduto. Il co. 4 dell’art. 648-ter.1 c.p. prevede una clausola di non punibilità - aspramente criticata dalla dottrina e tacciata di una intrinseca punibilità - in virtù della quale non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale; è necessario, tuttavia, che 1) vi sia un uso diretto da parte dell’agente dei beni che costituiscono il provento del reato presupposto e 2) l’assenza di attività concretamente ostacolative dell’identificazione della provenienza delittuosa del bene. Non manca, infine, una riflessione sulla mancanza di una definizione del rapporto sotteso tra l’autoriciclaggio e il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. I dubbi lasciati aperti non potranno che essere risolti, secondo l’Autore, da un intervento legislativo.

 

Crediti inesistenti e non spettanti, indebita compensazione a due viedi Laura Ambrosi – da “Il Sole 24 Ore - Norme e Tributi Plus”, 9.3.2022.

La sentenza oggetto del presente articolo (Cass. pen., sez. III, 3.03.2022, n. 7615) vedeva la contestazione, nei confronti dell’indagato, della compensazione di crediti inesistenti per spese di ricerca e sviluppo; la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha puntualizzato che un credito non può dirsi al tempo stesso spettante e inesistente, giacché o lo stesso è inesistente oppure non è spettante, come peraltro già ribadito da alcune precedenti pronunce della Sezione tributaria. Affinché un credito possa considerarsi inesistente, prosegue la Cassazione, occorre che sussistano due requisiti: a) deve mancare il presupposto costitutivo; b) l’inesistenza non deve essere riscontrabile attraverso controlli automatizzati o formali o dai dati in anagrafe tributaria; nel caso in cui manchi uno dei due requisiti, il credito dovrà ritenersi non spettante. L’integrazione della inesistenza presuppone che il credito sia ancorato ad una situazione “non reale o non vera, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza”. La distinzione tra le due ipotesi (credito inesistente/credito non spettante) si estrinseca anche sul piano dell’elemento soggettivo: l’inesistenza del credito, salvo prova contraria, costituisce di per sé indice rivelatore della coscienza e volontà del contribuente di ottemperare i propri debiti attraverso la creazione di una posta creditoria artificiosa, mentre nel caso di credito non spettante occorre provare la consapevolezza del contribuente circa la inutilizzabilità di tali crediti in sede di compensazione. 

 

 

PROCESSO PENALE

Un’informazione sui processi nel rispetto delle garanzie - I profili generali” di Giorgio Spangher, da “Guida al diritto - Il Sole 24 Ore”, n. 48/2021, pag. 36 ss.

Nell’articolo in questione, l’Autore affronta il recente D.Lgs. 8 novembre 2021 n. 188, entrato in vigore lo scorso 14 dicembre. Con tale provvedimento, composto da sei articoli, il nostro Paese ha recepito, sia pur con ritardo, la Direttiva n. 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio UE sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza delle persone fisiche sottoposte ad indagine o imputate in un procedimento penale nonché del diritto dell’imputato di presenziare al processo penale. Interessante è il contenuto dell’art. 2 co. 1 del predetto decreto, che sancisce il divieto generale per le autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o imputata in un procedimento ancora in corso. I successivi commi (co. 2, 3 e 4) considerano i rimedi esperibili in caso di violazione del divieto, ferma restando l’applicazione di eventuali sanzioni penali e disciplinari; il soggetto interessato, oltre al risarcimento del danno, avrà infatti diritto di richiedere all’autorità pubblica la rettifica della dichiarazione resa, immediatamente e, comunque, non oltre le quarantotto ore dalla ricezione della richiesta. L’ultimo comma prevede, altresì, che l’interessato, qualora la menzionata richiesta non sia accolta o la rettifica non rispetti le modalità indicate, possa richiedere ex art. 700 c.p.c. la pubblicazione della rettifica. L’art. 3 disciplina la diffusione delle informazioni sui procedimenti penali in corso da parte degli uffici di procura; nell’ottica di rafforzare la presunzione di innocenza, la loro diffusione può essere consentita solo laddove strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini ovvero solo ove ricorrano specifiche ragioni di interesse pubblico e, peraltro, solo servendosi di comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica, attraverso conferenze stampa. L’art. 4 ha introdotto l’art. 115-bis nel codice di procedura penale, rubricato “Garanzia di presunzione di innocenza”, in virtù del quale, fatta eccezione per gli atti volti alla decisione in merito alla responsabilità della persona sottoposta alle indagine o dell’imputato, nei provvedimenti adottati nel corso del procedimento penale tale soggetto non può essere indicato come colpevole; in caso di violazione del suddetto divieto, peraltro, l’interessato potrà presentare, entro dieci giorni dalla conoscenza del provvedimento, istanza di correzione al giudice, il quale sarà tenuto a provvedere con decreto motivato entro 48 ore dal deposito dell’istanza. L’Autore, nel valutare complessivamente l’intervento normativo in oggetto, ne ha riconosciuto la valenza pionieristica in termini di informazione processuale più garantista nei confronti dell’indagato/imputato ma, al tempo stesso, ha manifestato la necessità di un intervento sulle manifestazioni patologiche del circuito extragiudiziario.

 

 

DIRITTO TRIBUTARIO

IRAP 2022

Commercianti, artisti e professionisti: le categorie che non devono pagaredi Nicola Graziano – da “Guida al Diritto”, n. 8/2022, pag. 28 ss.

Tornando sul tema, già affrontato il mese precedente, dell’esclusione dell’Irap per le persone fisiche esercenti attività commerciali, arti e professioni e dei dubbi sollevati dall’art. 1 co. 8 e 9 della Legge di Bilancio n. 234/2021, l’Autore precisa che, in assenza di una espressa esclusione, non sono esenti dal pagamento dell’imposta per l’anno 2022 le società in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché quelle ad esse equiparate che svolgono attività commerciali e le società semplici ad esse equiparate che esercitano arti e professioni. Non soltanto: sono esclusi dal pagamento anche i lavoratori autonomi, le imprese individuali, l’imprenditore familiare (che si avvale di collaboratori e dipendenti), l’agente di commercio, il medico, il notaio e altri professionisti che si avvalgono, nell’esercizio delle loro attività, di dipendenti e collaboratori, per i quali viene meno la necessità di accertare se sussista o meno il requisito della autonoma organizzazione.

La ratio della riforma, che chiaramente mira ad escludere liberi professionisti e imprenditori individuali nel tentativo di ridurre il contenzioso avanti alle Commissioni tributarie, conduce a ritenere che gli studi associati e le società tra professionisti siano ancora soggetti al pagamento dell’imposta.

 

 

DIRITTO D’IMPRESA

FALLIMENTO

Alcune considerazioni in tema di prova dei requisiti di non fallibilità ex art. 1 l.fall.con commento di Valentina Baroncini – da “Il fallimento e le altre procedure concorsuali”, n. 2/2022, pag. 183 ss.

Sentenza di riferimento: Cass. civ., sez. I, 23.07.2021, n. 21188.

Nel caso affrontato dalla Cassazione e oggetto del menzionato commento, il Tribunale di Treviso aveva dichiarato in primo grado il fallimento di una S.r.l., cui era seguito un reclamo ex art. 18 L. fallimentare con cui si denunciava l’assenza dei presupposti di fallibilità di cui all’art.1 della predetta legge; rigettato il gravame in appello, la società fallita presentava ricorso per cassazione. La Suprema Corte ha ritenuto che i requisiti dimensionali per l’esonero da fallibilità dell’imprenditore debbano sussistere anche al tempo dell’istanza e della dichiarazione di fallimento. La corretta individuazione dei “tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento” di cui all’art. 1, co. 2 L. fallimentare, necessari per valutare il superamento della soglia rappresentata dall’attivo patrimoniale (lett. a) nonché l’eventuale eccedenza rispetto al limite costituito dai ricavi lordi dell’impresa (lett. b), è, in tal senso, fondamentale: in ciò ci viene incontro la giurisprudenza di merito, secondo cui si tratterebbe degli esercizi “chiusi” e “conclusi” alla data di deposito dell’istanza di fallimento. L’Autrice, sulla scorta della menzionata pronuncia, non ritiene, tuttavia, che vi siano indici che conducano univocamente a considerare i soli esercizi chiusi. Per quanto attiene alla questione relativa ai poteri istruttori riconosciuti al giudice in sede di istruttoria prefallimentare, essi saranno esercitabili al sussistere di un duplice ordine di condizioni: a) dovranno attenersi ai limiti dei fatti dedotti dalle parti o emergenti dagli atti del processo; b) potranno essere spendibili al solo fine di integrare le fonti di prova già acquisite.