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NEWSLETTER MAGGIO - GIUGNO 2022

APPROFONDIMENTO MENSILE: NOVITA’ GIURISPRUDENZIALI E DOTTRINARIE PER ORIENTARSI NEL MONDO DEL DIRITTO D’IMPRESA

 

 

RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE:

 

DIRITTO PENALE TRIBUTARIO E SOCIETARIO

 

REATI TRIBUTARI

CASISTICA:

 

OMESSA DICHIARAZIONE DELLE IMPOSTE SUI REDDITI E IVA EX ART. 5 D.LGS. N. 74/2000

Cass. pen., sez. III, 23.03.2022, n. 9983.

Ai fini della configurabilità dei reati in materia di Iva, la determinazione della base imponibile, e della relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l'eventuale sussistenza di costi non documentati; tuttavia, è possibile tenere conto di questi ultimi nelle ipotesi di reati concernenti le imposte dirette, non essendovi alcun obbligo a carico della Amministrazione finanziaria di ricercare le fatture presso gli emittenti.

 

Cass. pen., sez. III, 23.03.2022, n. 9984.

In tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale, con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza.

 

OCCULTAMENTO DI SCRITTURE CONTABILI EX ART. 10 D.LGS. N. 74/2000

Cass. pen., sez. III, 10.03.2022, n. 8316.

Coerentemente con la natura di reato permanente del delitto di occultamento delle scritture contabili ex art. 10 D.Lgs. n. 74/2000, il momento iniziale della permanenza è quello in cui la documentazione non viene rammostrata a chi legittimamente la richieda, rimanendo, pertanto, essa occultata, ma la flagranza del reato sussiste fintanto che, essendo in corso l’attività di accertamento fiscale, la documentazione potrebbe essere ancora utilmente consegnata ai verificatori. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, la permanenza del reato cessa solo con la conclusione dell’attività di verifica, senza che la documentazione sia stata rimossa dalla sua condizione di occultamento.

 

OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE DOVUTE O CERTIFICATE EX ART. 10-BIS D.LGS. N. 74/2000

Cass. pen., sez. III, 28.03.2022, n. 11086.

Il denaro che affluisce sul conto corrente successivamente alla commissione del reato di omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10-bis D.Lgs. n. 74/2000 (soprattutto se il conto corrente è diverso da quello della persona giuridica nel cui interesse o vantaggio è stato commesso l’illecito da parte della persona fisica) non può - come già ribadito in più occasioni dalla Suprema Corte - costituire il profitto del reato tributario, rappresentato dal risparmio di imposta conseguente all’omissione di versamento del quantum corrispondente. Né rileva, al proposito, la natura di bene fungibile propria del denaro, stando alla ricostruzione fornita dalle Sezioni Unite, per legittimarne la sequestrabilità in forma diretta.

 

OMESSO VERSAMENTO DI IVA EX ART. 10-TER D.LGS. N. 74/2000

La procedura di concordato preventivo scrimina i reati di omesso versamento di un debito tributario, in relazione a obblighi scaduti tra la presentazione dell’istanza di ammissione al concordato – sia esso “in bianco” che con deposito del piano – e l’adozione del relativo decreto, solo ove sia intervenuto un provvedimento del Tribunale che abbia vietato, o comunque non autorizzato, come invece richiesto dall’interessato, il pagamento dei suddetti debiti, essendo in tal caso configurabile la scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo dell’autorità ex art. 51 c.p. Per contro, in mancanza di dette condizioni, il mero decreto di ammissione al concordato non vale a scriminare “retroattivamente” gli omessi versamenti relativi a debiti scaduti anteriormente, perché, in linea di principio, la procedura di concordato preventivo non inibisce il pagamento dei debiti tributari il cui termine di scadenza è successivo al deposito della domanda. Per completezza, la Cassazione non manca di illustrare anche il secondo orientamento, minoritario, per il quale, nel caso di ammissione al concordato preventivo, non è configurabile il fumus del reato di cui all’art. 10-bis D.Lgs. n. 74/2000, per l'omesso versamento di ritenute dovute o certificate in relazione agli obblighi scaduti successivamente alla presentazione dell'istanza di ammissione al concordato, in quanto gli effetti di tale ammissione decorrono dalla data della presentazione della relativa domanda.

 

SOTTRAZIONE FRAUDOLENTA AL PAGAMENTO DI IMPOSTE EX ART. 11 D.LGS. N. 74/2000

Cass. pen., sez. III, 20.04.2022, n. 15239.

Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte ex art. 11 D.Lgs. n. 74/2000 è reato di pericolo per il quale non rileva l’avvenuta emissione, in tutto o in parte, di cartelle esattoriali, ma è richiesta soltanto l’esistenza di un credito erariale relativo, per capitale e/o interessi o sanzioni, ad imposte sui redditi o IVA, suscettibile di essere azionato coattivamente; pertanto, la verifica del superamento della prevista soglia di punibilità (superiore a 50.000 Euro) va effettuata al momento del compimento dell’atto simulato o fraudolento, senza tener conto degli interessi e delle somme aggiuntive successivamente maturate. La condotta fraudolenta, aggiunge la Suprema Corte, deve essere rivolta a sottrarsi al pagamento delle imposte e, in caso di assenza di debito fiscale, non può configurarsi nessuna condotta fraudolenta (intenzionalmente rivolta, appunto, a sottrarsi al pagamento).

 

SEQUESTRO PREVENTIVO E CONFISCA EX ART. 12-BIS D.LGS. N. 74/2000

Cass. pen., sez. III, 1.02.2022, n. 3575.

Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari, prevista dall’art. 12-bis, co. 1, del D.Lgs. n. 74/2000, prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto di qualsiasi procedura concorsuale (concordato preventivo o fallimento), attesa l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro, per cui il rapporto tra il vincolo imposto dall’apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro deve essere risolto a favore della seconda misura, prevalendo sull’interesse dei creditori l’esigenza inibire l'utilizzazione di un bene oggettivamente e intrinsecamente pericoloso, in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato. Tale principio di equivalenza, osserva infine la Suprema Corte, si rinviene altresì - sia pur con diverse specificità - negli artt. 63 e 64 del D.Lgs. n. 159/2011 (c.d. “Codice antimafia”), nonché in alcune disposizioni del nuovo Codice della crisi di impresa (D.Lgs. n. 14/2019).

 

Cass. pen., sez. III, 25.02.2022, n. 6765.

Il limite all’espropriazione immobiliare previsto dall’art. 76, co. 1, lett. a) del d.P.R. n. 602/1973, nel testo introdotto dal D.l. n. 69/2013, art. 52, co. 1, lett. g) (convertito, con modificazioni, nella l. 98/2013), opera solo per debiti nei confronti dell’Erario e non di altre categorie di creditori, non riguarda la “prima casa” bensì l’unico immobile di proprietà (giacché, osserva la Corte, tale concetto che non afferisce alla qualificazione del singolo immobile oggetto di pignoramento ma ha a che vedere con la consistenza complessiva del patrimonio del debitore) e non costituisce un limite all’adozione della confisca penale, sia essa diretta o per equivalente e del sequestro preventivo ad essa finalizzato.

 

Cass. pen., sez. III, 2.03.2022, n. 7285.

La confisca per equivalente ex art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000, per espressa previsione normativa, può essere disposta soltanto con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta, in quanto, a differenza della confisca diretta, che ha natura di misura di sicurezza, la confisca per equivalente ha carattere afflittivo e sanzionatorio, e quindi non può essere disposta nel caso di estinzione del reato, occorrendo la pronuncia di una sentenza di condanna o di applicazione della pena. Nel caso de quo, non potrà trovare applicazione quanto stabilito dall’art. 578-bis c.p.p., che ha disciplinato la possibilità di mantenere la confisca con la sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato nel caso in cui sia accertata la responsabilità dell’imputato, dal momento che la disposizione è entrata in vigore in data 6.4.2018, dunque successivamente al verificarsi dei fatti oggetto della causa.

 

Cass. pen., sez. III, 3.03.2022, n. 7610.

Sebbene il concetto di disponibilità di un bene, ai fini del sequestro preventivo di esso, non sia equivalente alla formale titolarità del medesimo intesa in senso civilistico, tuttavia è in ogni caso necessario che su di esso l’individuo, per essere legittimamente attinto dalla misura cautelare reale, eserciti un potere di fatto, il cui contenuto è sussumibile in quello che in termini civilistici sarebbe definibile come possesso, inteso come la relazione materiale che il soggetto ha con il bene che si estrinseca nell’esercizio degli autonomi poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà. Nel caso de quo si trattava di un immobile di proprietà esclusiva di un terzo estraneo alla contestazione penale (nello specifico, la moglie dell’imputato), conferito in un fondo patrimoniale costituito tra l’imputato e il terzo – i cui caratteri di potere non appaiono integrare gli elementi della disponibilità giuridicamente rilevante ai fini della legittimità del sequestro preventivo riferito a beni non appartenenti al soggetto indagato.

 

Cass. pen., sez. III, 14.03.2022, n. 8557.

La confisca, anche per equivalente, dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei delitti previsti dal D.Lgs. n. 74/2000, deve essere sempre disposta nel caso di condanna o di sentenza di applicazione concordata della pena. Tuttavia, la confisca per equivalente di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente al profitto del reato, è ammessa soltanto laddove non sia possibile la confisca – c.d. diretta – dei beni che costituiscono il profitto del reato. La misura ablatoria – così come il sequestro preventivo a essa funzionale – è dunque legittima soltanto se i proventi dell’illecito non sono rinvenuti nella sfera patrimoniale dell’ente nel cui interesse il reato tributario è stato commesso, dovendo farsi ricorso alla confisca per equivalente soltanto in via subordinata.

 

Cass. pen., sez. III, 14.03.2022, n. 8564.

Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato, corrispondente all'ammontare dell'imposta evasa, può essere legittimamente mantenuto fino a quando permane l'indebito arricchimento derivante dall'azione illecita, che cessa con l'adempimento dell'obbligazione tributaria. Allo stesso modo, nel caso di parziale adempimento del debito tributario a seguito dell'accordo di rateizzazione ed alla conseguente riduzione del profitto illecito e della confisca, non v'è dubbio che il sequestro non possa essere mantenuto - né la confisca possa essere disposta sull'intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell'imposta evasa, dovendo il quantum essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l'ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall'azione delittuosa. Tale principio è ora incardinato nell’art. 12-bis del D.Lgs n. 74/2000, il cui comma 2 prevede che "la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”; una simile previsione va intesa nel senso che la confisca - così come il sequestro preventivo ad essa preordinato - può essere adottata anche a fronte dell'impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l'evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito, non potendo altrimenti operare e dovendosi comunque ridurre l'importo della stessa in considerazione di rate eventualmente versate.

 

Cass. pen., sez. III, 21.03.2022, n. 9444.

È illegittimo l’immediato ricorso alla forma “per equivalente” della confisca, attesa la sua natura sussidiaria rispetto alla possibilità di procedere in forma diretta; non solo, prosegue la Corte, ancor più ingiustificato è l’immediato ricorso alla confisca per equivalente nel caso di S.r.l. unipersonale, sulla base del solo erroneo assunto per cui sussisterebbe in tal caso una confusione tra il patrimonio del socio e quello della società unipersonale da lui partecipata.

 

 

REATI SOCIETARI

CASISTICA:

BANCAROTTA FRAUDOLENTA DOCUMENTALE EX ART. 216, CO. 1, N. 2 L. FALL.

Cass. pen., sez. V, 9.03.2022, n. 8207.

La mancata consegna delle scritture contabili al curatore integra il reato di bancarotta fraudolenta documentale, per la quale è richiesto il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo la condotta nella fisica sottrazione delle scritture alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, laddove la fraudolenta tenuta di tali scritture, per la quale è richiesto il dolo generico, presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dagli organi della procedura fallimentare. Ciò che, invece, non è affatto richiesto dalla norma ai fini dell’integrazione del reato, precisa la Suprema Corte, è la coeva contestazione di una o più condotte distrattive; sebbene, infatti, nella maggior parte dei casi, la condotta di bancarotta fraudolenta documentale per distrazione, sottrazione o occultamento delle scritture contabili sia funzionale ad una o più distrazioni, non va confuso il piano probatorio - relativo alla ricostruzione della concreta fattispecie di reato, anche in relazione alla dimostrazione dell'elemento soggettivo - con la configurabilità dell'imputazione.

 

DIRITTO SOCIETARIO

FALLIMENTO

Cass. civ., sez. I, 10.02.2022, n. 4347.

Con la sentenza in oggetto, la Cassazione ha colto l’occasione per affermare due importanti principi di diritto: 1) l’art. 2448 c.c., co. 1, n. 4), (nel testo anteriore all'entrata in vigore del D.Lgs. 6/2003, ratione temporis applicabile al caso di specie), che prevede lo scioglimento della società di capitali "per la riduzione del capitale al disotto del minimo legale, salvo quanto è disposto dall'art. 2447", si interpreta nel senso che tale evento si verifica solo quando la perdita di esercizio di consistenza superiore al terzo del capitale determina la riduzione di questo al disotto del minimo stabilito dalla legge (art. 2327 c.c., per la società per azioni; art. 2474 c.c., per la società a responsabilità limitata); non si verifica quando la perdita di capitale, pur determinando la riduzione di questo al disotto del minimo stabilito dalla legge, sia pari o inferiore al terzo del capitale medesimo; 2) nell’azione di responsabilità promossa dal curatore di fallimento ai sensi dell’art. 146 co. 2 L.fall. contro l’ex amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il dovere di compiere nuove operazioni sociali dopo l’avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al di sotto del minimo legale (art. 2449 c.c., nel testo anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6/2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), il giudice, ove, nella quantificazione del danno risarcibile, si avvalga, ricorrendone le condizioni, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, temperato dalla espunzione da tale differenza del passivo formatosi successivamente al verificarsi dello scioglimento della società, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l’insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell’amministratore e, dall’altro, l’accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime e il danno allegato sarebbe stato precluso dall’insufficienza delle scritture contabili sociali; e ciò sempre che il ricorso a tale criterio equitativo sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

 

SOCIETÀ DI CAPITALI

Cass. civ., sez. VI - 1, 1.02.2022, n. 2984.

Nell’ipotesi di perdita del capitale sociale e di sua riduzione al di sotto del minimo di legge, lo scioglimento della società si produce automaticamente ed immediatamente, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o della trasformazione della società, da deliberarsi, peraltro, con le maggioranze richieste per le modificazioni dell’atto costitutivo, cui detti provvedimenti danno sostanzialmente luogo, e non già allunanimità, come necessario per la deliberazione di revoca dello scioglimento, in quanto, con il verificarsi dell’anzidetta condizione risolutiva, vengono meno ex tunc lo scioglimento della società ed il diritto del socio alla liquidazione della quota. Manca nell’ordinamento un termine oltre il quale è precluso all’assemblea di deliberare a norma dell’art. 2482-ter c.c.; la locuzione “senza indugio”, infatti, vale solo a connotare in termini di urgenza il dovere di informazione gravante sull’amministratore e, quindi, a fissare un preciso aspetto di responsabilità nei confronti della società che potrebbe essere seriamente pregiudicata dal ritardo della convocazione dell’assemblea.

 

 

 

RASSEGNA DOTTRINALE:

 

DIRITTO PENALE TRIBUTARIO

La dichiarazione incompleta integra il reato di dichiarazione infedele se ne ricorrono i presupposti” con commento di Ciro Santoriello – da “Il Fisco”, n. 13/2022, pag. 1265 ss.

Sentenza di riferimento: Cass. pen., sez. III, 14.02.2022, n. 5141.

La sentenza in epigrafe, già citata in sede di rassegna giurisprudenziale nel novero delle sentenze più interessanti pronunciate dalla Suprema Corte in materia di reati tributari, è stata oggetto di un commento da parte dell’Autore; nel caso de quo, la Cassazione veniva chiamata a qualificare la condotta di un contribuente che aveva compilato e successivamente inviato all’Amministrazione finanziaria competente (entro i novanta giorni dalla scadenza del termine ordinario per la sua presentazione) una dichiarazione dei redditi per più annualità intenzionalmente incompleta e parziale (si era ritenuto che la stessa fosse “sostanzialmente in bianco” dal momento che non era stato compilato il quadro RS). Si tratta, rileva l’Autore, di una circostanza che si verifica spesso nella prassi ma su cui i giudici di legittimità avevano avuto modo di pronunciarsi una sola volta, quasi dieci anni fa (si veda, al proposito, Cass. pen., sez. III, 31.07.2013, n. 33187). Per i giudici di merito la presentazione della dichiarazione entro il suddetto termine era stata effettuata dal contribuente allo scopo di sottrarsi ad accertamenti automatizzati, in modo tale da evitare conseguenze penali. La Cassazione, con la menzionata sentenza, ha ritenuto di escludere la sussistenza del reato di omessa dichiarazione, dal momento che l’equiparazione tra il suddetto reato e quello di presentazione di dichiarazione incompleta “non può (…) essere condivisa, giacché fondata, a fronte di una condotta esaustivamente e rigorosamente individuata dalla norma e come tale non suscettibile di alcuna estensione, su una lettura analogica della norma contrastante con il principio di legalità”. Nel caso esaminato, in ragione del fatto che una dichiarazione dei redditi era stata presentata, deve ritenersi integrato il delitto di dichiarazione infedele.

 

La prova dell’occultamento o distruzione di documenti contabili si può ricavare anche da dichiarazioni rese in sede di accertamento” con commento di Ciro Santoriello – da “Il Fisco”, n. 15/2022, pag. 1471 ss.

Sentenza di riferimento: Cass. pen., sez. III, 1.03.2022, n. 7120.

L’Autore si sofferma su una recente sentenza pronunciata dalla Suprema Corte con cui viene precisato che, ai fini della integrazione del delitto ex art. 10 D.Lgs. n. 74/2000, l’occultamento o la distruzione di documenti contabili non debbono essere integrali: è sufficiente, come già ribadito da precedenti pronunce, che la condotta sia idonea ad impedire la verifica fiscale e l’accertamento dei tributi ed abbia, come effetto, l’impossibilità di ricostruire il valore economico degli affari del contribuente o di rendere obiettivamente più difficoltosa la ricostruzione. La ratio della previsione incriminatrice, sottolinea la Cassazione, è quella di assicurare la conservazione delle scritture contabili e degli altri documenti di cui è obbligatoria la tenuta e la conservazione al fine di garantire il corretto esercizio della funzione di accertamento fiscale. La sentenza affronta un’altra questione di rilievo, questa volta di carattere processuale, ovverosia l’utilizzabilità, nei processi penali riferiti ad illeciti finanziari, di dichiarazioni rese dall’imputato in fase di accertamento tributario e trasfuse nel processo verbale di constatazione, dunque prodromiche all’instaurazione del processo penale. Ebbene, il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, in quanto atto amministrativo extraprocessuale, costituisce prova documentale anche nei confronti di soggetti non destinatari della verifica fiscale; qualora, tuttavia, emergano indizi di reato, occorrerà procedere secondo le modalità previste dall’art. 220 disp. att. c.p.p., altrimenti la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non potrà assumere efficacia probatoria e, quindi, non sarà utilizzabile. Pertanto, la parte di documento redatta anteriormente all’insorgere di indizi ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito. In ogni caso, la violazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p. non determina automaticamente l’inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, giacché è necessario che tale inutilizzabilità sia autonomamente prevista dalle norme di rito cui rimanda l’art. 220 disp. att. c.p.p. Nel caso de quo, nonostante la violazione della suddetta norma, la Cassazione ha ritenuto utilizzabili le dichiarazioni rese spontaneamente dal contribuente in sede di accertamento tributario, data l’instaurazione del successivo giudizio abbreviato.

 

“Crisi di liquidità e reati di omesso versamento di ritenute certificate e IVA” di Stefano Loconte – da “Il Fisco”, n. 16/2022, pag. 1546 ss.

Nell’articolo in questione, l’Autore riflette su una delle questioni che, nel campo del diritto penale tributario, affligge maggiormente le imprese, ovverosia se l’illiquidità dell’azienda, tale da determinare un ritardo nel pagamento dei debiti erariali della stessa, possa costituire causa di forza maggiore o, quantomeno, escludere il dolo, evitando così l’integrazione dei reati ex artt. 10- bis e 10-ter D.Lgs. n. 74/2000. Quando, in particolare, l’impresa si trova costretta a compiere difficili scelte – a mero titolo esemplificativo, decidere se pagare le imposte o i salari dei dipendenti –, complice anche l’attuale crisi economica, la giurisprudenza, ancorché non concorde, tende ad escludere l’integrazione del reato. La proposta di legge n. 3024 del 16 aprile 2021 della Camera dei Deputati va nella direzione di riformare i citati articoli inserendo, tra gli elementi integrativi del reato di omesso versamento, il fine di evadere l’obbligazione tributaria. Il reato di omesso versamento, continua l’Autore, è una fattispecie a dolo generico, tale per cui la pena viene irrogata a prescindere dall’intento psicologico dell’autore del fatto e, dunque, indipendentemente dallo scopo perseguito: è sufficiente, oltre al superamento della soglia di punibilità, la mera consapevolezza e volontà del contribuente di omettere il pagamento dovuto al Fisco entro il termine previsto per la consumazione del reato. Nell’ipotesi in cui l’omesso versamento derivi da una impossibilità di risorse finanziarie, i giudici di primo grado mostrano di essere sensibili al fenomeno della crisi di liquidità e tendono a focalizzarsi sull’assenza di volontarietà dell’omissione, dipendente da cause esterne e non certo da una libera scelta del contribuente, richiamando i concetti di forza maggiore e di stato di necessità. La giurisprudenza della Suprema Corte, tuttavia, si rifiuta di aggirare il dato normativo ed è restia a riconoscere l’applicazione delle suddette scriminanti. A parere dell’Autore è senz’altro auspicabile un intervento legislativo che consenta di superare l’impasse.

 

“Il concordato preventivo può scriminare il reato di omesso versamento IVA se il giudice autorizza il mancato pagamento” con commento di Ciro Santoriello – da “Il Fisco”, n. 16/2022, pag. 1577 ss.

Sentenza di riferimento: Cass. pen., sez. III, 18.03.2022, n. 9248.

L’Autore commenta una sentenza oggetto della presente rassegna e fornisce importanti spunti di riflessione. Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai prevalente, non sussiste il reato di cui all’art. 10-ter D.Lgs. n. 74/2000 nel caso in cui il debitore sia stato ammesso al concordato preventivo in epoca anteriore alla scadenza del termine per il relativo versamento, in virtù della inclusione nel piano concordatario del debito d’imposta, degli interessi e delle sanzioni amministrative. Il concordato preventivo, infatti, non rappresenterebbe una manifestazione di autonomia negoziale, quanto più un istituto prevalentemente pubblicistico. Con la sentenza in oggetto, la Suprema Corte ha stabilito che la procedura di concordato preventivo scrimina i reati di omesso versamento, in relazione ad obblighi scaduti tra la presentazione dell’istanza di ammissione alla procedura e l’adozione del relativo decreto, solamente ove sia intervenuto un provvedimento del Tribunale che abbia vietato (o comunque non autorizzato) il pagamento dei suddetti debiti, giacché in tale caso è configurabile la scriminante ex art. 51 c.p. L’Autore sposta l’attenzione su taluni interrogativi lasciati aperti dalla sentenza n. 39696/2018 relativi alla modifica dell’art. 182-ter R.D. n. 267/1942, che, ad oggi, riconosce come legittimo il pagamento parziale di un debito IVA da parte di un imprenditore in stato di insolvenza nell’ambito di un procedura di concordato preventivo; sul solco di tale modifica, la Suprema Corte ha ritenuto che, in relazione all’IVA, sia possibile un pagamento parziale o dilazionato nella procedura di concordato preventivo senza che vi siano conseguenze penali a carico dell’imprenditore insolvente.

 

“Valutazioni fiscali fraudolente ammessa al ravvedimento” di Antonio Iorio – da “Il Sole 24 Ore - Norme e Tributi Plus”, 12.5.2022.

Con la circolare 11/E del 12 maggio scorso l’Agenzia delle Entrate ha stabilito una volta per tutte, dopo averlo escluso in passato, che anche le violazioni tributarie fraudolente sono ravvedibili. Del resto, la circolare si limita a prendere atto del contenuto del D.Lgs. n. 74/2000, così come modificato a decorrere dal 25 dicembre 2019: all’art. 13 è previsto che attraverso il ravvedimento operoso sia possibile conseguire la non punibilità, tra gli altri, anche del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante operazioni inesistenti o altri artefizi qualora i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, siano stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti a seguito del ravvedimento operoso entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, “sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l'autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali”. Restano dubbi, invece, sulla commisurazione della sanzione ridotta nelle ipotesi di ravvedimento; lo stesso, infatti, comporta una differente riduzione percentuale della sanzione a seconda del momento in cui viene seguito (art. 13 D.Lgs. n. 472/1997). La menzionata circolare parrebbe aprire ad un distinguo: se la violazione è stata constatata, la riduzione della sanzione andrà commisurata tenendo conto dell’aggravante, in caso contrario dovrebbe trovare applicazione la sanzione edittale minima senza aggravante della metà. L’Autore, sottolineando la delicatezza della questione affrontata dall’Agenzia, auspica un intervento chiarificatore sul punto.

 

 

DIRITTO D’IMPRESA

SOCIETÀ DI PERSONE

“La responsabilità degli amministratori delle società di persone” con commento di Gaia Pacilli – da “Le Società”, n. 3/2022, pag. 269 ss.

Sentenza di riferimento: Cass. civ., sez. I, 28.04.2021, n. 11223.

Le società di persone, diversamente dalle società di capitali, sono prive di personalità giuridica, e in esse sussiste, in linea di massima, una responsabilità illimitata dei soci nei confronti delle obbligazioni sociali. Si tratta, tuttavia, di una distinzione solo teorica tra le due tipologie sociali, che nulla ha a che vedere con l’attribuzione o meno di personalità giuridica. Il contratto sociale, che soggiace alle medesime regole previste in materia di obbligazioni, è senza dubbio plurilaterale e a titolo oneroso, e tale carattere deriva dai conferimenti funzionali allo svolgimento dell’attività economica che la società si propone di perseguire. Nelle società di persone, tuttavia, rileva anche un ulteriore elemento, quello dell’intuitus personae: due o più soggetti si uniscono dando vita ad una società in virtù della reciproca fiducia nell’attitudine dei singoli e dell’affidamento sulla consistenza dei patrimoni di ciascuno di essi. Per quanto riguarda, in generale, il ruolo di amministratore, esso trova origine tanto nel contratto sociale, quanto in un atto ad esso separato, quello di nomina. Fatte tali premesse, l’Autrice critica l’atteggiamento della Cassazione, a suo dire poco aderente alla realtà: la forzatura consiste nel voler mettere in comunicazione due modelli – le società di capitali e le società di persone – che, in verità, non hanno molti punti di condivisione. Ci si sofferma poi sulla connotazione delle società a responsabilità limitata, che gradualmente si è affermato come il modello più vicino alle società di persone, complice la riforma attuata con il D.Lgs. n. 6/2003. In particolar modo, viene sottolineato, si è giunti alla enucleazione di due sottotipi di S.r.l., uno dei quali dai connotati fortemente personalistici: ciò è evidente con riferimento alla disciplina delle partecipazioni, all’ampia discrezionalità rimessa all’autonomia statutaria nella distribuzione e articolazione dei poteri tra soci e amministratori e alla rimessione del potere di controllo all’iniziativa del socio, che si sostituisce così al collegio sindacale. L’Autrice, muovendo dal presupposto secondo cui l’azione di responsabilità nelle società di persone non può che trarre origine dal contratto sociale e dalla centralità della personalità dei soci ex art. 2476, co. 3, c.c., ritiene infondata la decisione, ancorché in linea con un filone giurisprudenziale maggioritario, di applicare analogicamente l’art. 2395 c.c., giacché la disposizione non soltanto disciplina un’azione di responsabilità aquiliana ma, altresì, finisce per riferirsi alle società di capitali che, come già anticipato, ben poco hanno a che spartire con le società di persone.

 

S.R.L.

“Il recesso del socio di una S.r.l. nel caso di durata eccessiva della società” con commento di Ilaria Capelli – da “Le Società”, n. 4/2022, pag. 452 ss.

Sentenza di riferimento: Tribunale di Milano, sez. Impr. B, 10.03.2021.

Con il provvedimento in questione, il Tribunale meneghino riflette sul tema del diritto di recesso del socio di una S.r.l. contratta a tempo indeterminato, o per la quale sia stato stabilito, nell’atto costitutivo, un termine eccessivamente lungo. L’esercizio di tale diritto, secondo il socio attore, dovrebbe fondarsi sull’applicabilità per analogia alle società a responsabilità limitata dell’art. 2285 c.c. (si tratta di una norma che ammette il recesso ad nutum dei soci dalle società di persone contratte a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci) o su di una interpretazione estensiva dell’art. 2473 c.c. L’Autrice sottolinea il carattere di eccezionalità del diritto di recesso nelle società di capitali, pur rilevando un mutamento di prospettiva, coincidente con la riforma del 2003, che ha determinato un ampliamento dell’istituto e delle sue casistiche. Le peculiari caratteristiche che questo assume, tuttavia, sono giustificate dal rischio di distruzione di ricchezza cui sono esposti società e soci in caso di recesso. Ci si sofferma anche sull’eventualità di una durata ritenuta eccessivamente lunga della società e risultante nell’atto costitutivo. L’art. 2258 c.c., con riferimento alle società di persone, parla di società contratta “per tutta la vita dei soci”; un’applicazione analogica di una simile norma alle S.r.l., riflette l’Autrice, comporterebbe taluni inconvenienti, non ultimo il fatto che il socio possa essere una persona giuridica, per la quale non si può parlare di una vita “normale” o “media”. Ben ha fatto, dunque, il Tribunale ad escludere l’applicazione della menzionata norma alle società di capitali.